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sabato 19 aprile 2014

Il mio personale saluto a Gabriel Garcia Marquez

Il 17 Aprile, appena due giorni fa a  Città del Messico è morto
Gabriel Garcia Marquez 
nome con il quale era conosciuto in tutto il mondo lo scrittore e giornalista colombiano Gabriel José de la Concordia García Márquez  nato a Aracataca, 6 marzo 1927.
Tempo fa scrissi  su di lui un articolo e anche se non amo riproporre vecchi scritti  in questo caso perdonatemi questo mio personalissimo strappo alla regola ma sento la necessità di ricordarlo a modo mio.
A lui devo molto del mio modo di scrivere e con questo non affaticatevi a trovare similitudini, io non sono la grande scrittrice che lui era ma ho amato sempre il suo saper dire senza mezze misure, con la sua esplicita chiarezza, disincantata, senza mai dover strafare per essere chiaro e tangibile..a lui bastava "dire".
Probabilmente anche per questo considerato il maggior esponente del cosiddetto "realismo magico", sa scrivere in modo chiarissimo, scorrevole e sa richiamare magistralmente l'attenzione, rendendo ogni particolare vivido e vissuto, ti trasporta nel luogo, anno e situazione che sta narrando e tu ti trovi a sentirti parte del racconto.
Questo anche grazie agli intrecci e ai racconti paralleli caratteristici nella sua narrativa, ed ad sapiente uso dei flashback.
La sua vita è spesso riportata nelle sue opere, alcune assolutamente autobiografiche..in esse si ritrova la giovinezza con i nonni materni, gli anni dello studio in collegio e i primi anni a Barranquilla come opinionista e reporter a "El Heraldo" prima e al “El Espectador” poi.
Visitò l’Italia dove studiò presso al Centro Sperimentale di Cinematografia, si trasferì poi a Parigi.
Nel 1958 sposa Mercedes Barcha dalla quale ha due meravigliosi figli (nella foto la famiglia al completo).
Dopo la vittoria di Fidel Castro, visita Cuba e lavorò per l'agenzia "Prensa latina", fondata dallo stesso Castro, si trasferì nel 1961 a New York, come corrispondente della stessa ma le continue minacce della CIA e degli esuli cubani lo indussero a trasferirsi in Messico.
Dal 1975, Gabriel García Márquez vive tra il Messico, Cartagena, L'avena e Parigi.
Nel 1982, venne insignito del Premio Nobel per la letteratura.
Ha scritto opere tradotte in moltissime lingue, cito solo alcune tra le sue famose opere: Cent’anni di solitudine, Cronaca di una morte annunciata,  Foglie morte, La mala ora, L’amore ai tempi del colera.. Vivere per raccontarla, che personalmente trovo bellissimo..
Era già stato consacrato come uno dei migliori scrittori contemporanei, tra le altre ragioni per il merito di aver riportato in auge la letteratura latino americana.
Grandi politici contemporanei in questi due giorni gli hanno dedicato parole sentite, dal presidente americano a quello russo.. facendo quasi a gare per ricordare aneddoti di incontri avuti col grande Gabo, come tutti ormai lo chiamavano.
A me piace ricordare Marquez come l'uomo che da ragazzina mi ha più volte presa per me e trascinata nelle sue magiche Macondo e che ancora oggi mi fa rivevere attraverso i suoi occhi cittadine e vite passate e forse utopiche che mai potrò vivere realmente.


Voglio lasciarvi con le sue celebri frasi..a centinaia ne potrei scegliere, tutte pregne di mille significati...

Continuò a vederlo fin quando terminò di tagliare la cipolla, e continuò a vederlo fin quando non era più possibile che potesse vederlo, perché allora non era ormai più un impiccio nella sua vita, ma un punto immaginario nell'orizzonte del mare.
Da "L' incredibile e triste storia della candida Erendira e della sua nonna snaturata"


.Lei l'aveva aiutato a sopportare l'agonia con lo stesso amore con cui l'aveva aiutato a scoprire la felicità.

.Avevano appena festeggiato le nozze d'oro e non sapevano passare neppure un istante l'una senza l'altro, o senza pensare l'una all'altro, e più rincrudiva la vecchiaia meno lo sapevano. Né lui né lei potevano dire se questa servitù reciproca si fondasse sull'amore o sulla comodità, ma non se l'erano mai domandato con la mano sul cuore, perché entrambi preferivano da sempre ignorare la risposta.

Entrambe tratte da " L'amore ai tempi del colera"

I domani non è assicurato a nessuno, giovane o vecchio. Oggi può essere l'ultimo giorno che vedi coloro che ami. Perciò non aspettare più, fallo oggi, perché se il domani non dovesse mai arrivare, sicuramente lamenterai il giorno che non hai preso tempo per un sorriso, un abbraccio, un bacio, e che sarai stato troppo occupato per concedere un ultimo desiderio.

13 Spunti per la Vita

1 - Ti amo non per chi sei ma per chi sono io quando sono con te.
2 - Nessuna persona merita le tue lacrime, e chi le merita sicuramente non ti farà piangere.
3 - Il fatto che una persona non ti ami come tu vorresti non vuol dire che non ti ami con tutta se stessa.
4 - Un vero amico è chi ti prende per la mano e ti tocca il cuore.
5 - Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è esserci seduto accanto e sapere che non l'avrai mai.
6 - Non smettere mai di sorridere, nemmeno quando sei triste, perché non sai chi potrebbe innamorarsi del tuo sorriso.
7 - Forse per il mondo sei solo una persona, ma per qualche persona sei tutto il mondo.
8 - Non passare il tempo con qualcuno che non sia disposto a passarlo con te.
9 - Forse Dio vuole che tu conosca molte persone sbagliate prima di conoscere la persona giusta, in modo che, quando finalmente la conoscerai, tu sappia essere grato.
10 - Non piangere perché qualcosa finisce, sorridi perché è accaduta.
11 - Ci sarà sempre chi ti critica, l'unica cosa da fare è continuare ad avere fiducia, stando attento a chi darai fiducia due volte.
12 - Cambia in una persona migliore e assicurati di sapere bene chi sei prima di conoscere qualcun'altro e aspettarti che questa persona sappia chi sei.
13 - Non sforzarti tanto, le cose migliori accadono quando meno te le aspetti.

La vita è un bene preziosissimo, ogni giorno può darci, magari inaspettatamente e nuove opportunità di felicità, ogni giorno ci saranno nuove emozioni e sensazioni da vivere è questo il più grande insegnamento che Gabo mi ha lasciato..ed io voglio oggi ricordarlo così..

venerdì 18 aprile 2014

"The Passion of the Christ"...ricordi dal passato..



Eccomi di nuovo qui.. tra poche ore e festeggeremo la Pasqua..ed è per questo che ho deciso di consigliare la ri-visione di un film, cult, almeno a mio modestissimo avviso, che mi colpì particolarmente quando uscì nelle sale e che ancora oggi campeggia tra i film da me più amati in assoluto e di svelarne ,soprattutto, qualche "dietro le quinte" !
C'è da dire una cosa : è un film che ha fatto discutere e che ha diviso la critica a metà tra chi lo ha considerato molto vicino alla vera storia della passione di Cristo e chi lo ha considerato troppo brutale ed efferato,
persino antisemita..
Io non pretendo di calarmi nei meandri della critica cinematografica, preferisco considerarlo un film forte che fa riflettere e credo che questo sia il massimo da dover volere da un film che non si arroga il diritto di intrattenere e far ridere ma al contrario ha l'ardire di essere una rievocazione storia, nel caso specifico biblica..
Ma passiamo alle curiosità di cui sopra, poichè ritengo inutile dire che il film ricostruisce le ultime ore di vita di Cristo con tutta la cruda brutalità della passione, morte e resurrezione.
Il film, titolo originale
"The Passion of the Christ" è stato scritto e diretto da Mel Gibson ed è uscito in Italia nella Pasqua del 2004.
Per chi non lo sapesse è stato totalmente girato in Italia, in location assolutamente azzeccate e suggestive quali
Matera e la città fantasma lucana di Craco.
E' indubbio che questi luoghi si siano prestati meglio di qualunque altro set ricostruito dentro qualche studio a ciò
che Gibson desiderava per il suo film, la vecchia Gerusalemme è rivissuta, riflessa negli occhi dell'attore protagonista Jim Caviezel mentre percorre le vie dei sassi sotto il peso della croce.
Matera è conosciuta come la Città dei Sassi ma voglio spiegare a chi non lo sappia brevemente il perchè: Il torrente Gravina di Matera scorre in una profonda fossa naturale che delimita i due antichi rioni della città: Sasso Barisano e Sasso Caveoso. Sull'altra sponda c'è la Murgia, protetta dal Parco Naturale delle Chiese Rupestri. 
E' qui nel Parco delle Chiese Rupestri che sono state girate le scene della crocefissione.
Gli antichi rioni chiamati Sassi, assieme con le cisterne ed i sistemi di raccolta delle acque, sono la caratteristica peculiare di Matera. Si tratta di originali ed antichi aggregati di case scavate nella calcarenite, a ridosso di un profondo burrone, la Gravina. 
Alla fine del 1993 l'UNESCO ha dichiarato i rioni Sassi Patrimonio Mondiale dell'Umanità.
Come detto  in precedenza oltre a Matera e qualche scena d'interno ricostruita negli studi di Cinecittà il film è stato girato anche a Craco...e proprio questo agglomerato di vecchie costruzioni mi ha affascinata in modo assoluto.
Craco vecchia sorge nella zona collinare che precede l'Appennino Lucano e negli anni sessanta un'evacuazione l'ha resa una vera e propria città fantasma quanto mai caratteristica come è facile indovinare da questa foto che ne mostra la bellezza unica aiutata dal cielo intensamente blu che crea un fortissimo contrasto con le mura cittadine. Nel film di Gibson è Craco che fa da sfondo alla scena dell'impiccagione di Giuda.
Come è possibile immaginare il film è una sintesi tratta dai Vangeli con alcuni spunti personali di Gibson e tradizioni dell'epoca che non sono però rintracciabili nelle Sacre Scritture. 
Inoltre alcune scene sono tratte dai diari della mistica tedesca Anna Katharina Emmerick, vissuta tra fine settecento e gli inizi dell'ottocento e dall'opera di Maria di Agreda intitolata "La mistica città di Dio"
Un ultima curiosità per chi non lo abbia ancora mai visto : il film è stato girato completamente in latino ed aramaico, sottotitolato in italiano,con lo scopo di rendere ancora più reale l'intensità dei momenti .
Vi lascio con uno spezzone del film, augurandomi di avervi offerto una lettura "alternativa" e sperando di non avervi annoiato.




mercoledì 16 aprile 2014

Tradizione e novità racchiuse nel dolcepasquale più colorato che ci sia..


Buongiorno ragazzuole e ragazzuoli belli.. eccoci qui..la Pasqua è ormai pronta a sommergerci con la sua sacralità, che spesso viene dimenticata, e con i cibi delle feste tipici di ogni regione che non mancheranno su nessuna tavola.
Di solito non sono io ad occuparmi di cibi e cucina ma in questi giorni ho fatto vari esperimenti per rendere una ricetta della cucina tipica umbra quanto mai attuale e vorrei proporvela.


In tutte le tavole dell"OldStylePerugino" non può mancare la Ciaramicola!
Si immagino bene le vostre faccette sconvolte..chissà cos'è sta roba qua con questo nome assurdo..
Bene, ve lo spiego subito e per farlo mi aiuto con una foto trovata online che si avvicina meglio di altre alla mia amata Ciaramicola..
In realtà altro non è che una base molto semplice con l'aggiunta dell'
alchermes che gli dà il tipico colore rosa-arancio.. Io qui vi posto il link diretto di un sito di cucina che ne mostra la preparazione passo passo ed è molto affine a quella che preparo che ho visto preparare tutta la vita da bisnonne e nonne

http://www.cookaround.com/le-vostre-ricette/dolci-pasquali/ciaramicola-1

Però ciò che voglio proporvi io oggi è una ricettina semplice e ottima di muffin alla ciaramicola, vi assicuro che la riuscita è assicurata e grazie alla loro naturale allegria strappano comunque un sorriso


Ingredienti

Per la base:
300 gr di farina, 
200 di zucchero
100 gr di burro sciolto
3/4 di bustina di lievito
2 uova intere e 1 rosso
mezzo bicchiere di alchermes
100 ml di latte

per la meringa:
3 albumi
250 gr di zucchero a velo
confettini colorati


Il procedimento è semplicissimo: sbattete bene le due uova ed il rosso con lo zucchero fino a creare un composto spugnoso, aggiungere poco a poco la farina, il burro lasciato sciogliere l'alchermes ed il lievito, infine aggiungere il latte.
Per quanto riguarda il latte consiglio di aggiungerlo per ultimo controllando la consistenza del composto che è per tutto identica a quella tipica dei muffin e di regolarsi di conseguenza per ovviare a composti troppo solidi o al contrario troppo liquidi.
Infornarli su forno preriscaldato a 140 gradi per circa 20 minuti.
Nel frattempo preparate la meringa montando a neve ferma 3 albumi e aggiungendo lentamente lo zucchero a velo.
Togliete i muffin dal forno ma lasciatel all'interno dei loro stampini ed aiutandovi con un cucchiaio ponete un'abbondante guarnizione di meringa su ogni muffin, aggiungete una manciata di confettini colorati e mettete di nuovo in forno a 100 gradi per una decina di minuti.
Vedrete che il risultato sarà buonissimo e golosissimo...noterete come sono soffici e golosi all'interno quanto croccante è lo strato superficiale di meringa e confettini e morbidissimo lo strato sottostante della meringa stessa...




Vi lascio qualche immagine dei miei muffin...









Per i chi ama il folklore ecco qualche curiosità sulla Ciaramicola:

La ciaramicola è un inno alla città di Perugia ed in realtà la sua forma circolare è voluta, è formata idealmente da 5 montagnole che rappresentani i cinque rioni di Porta Sole, Porta Sant’Angelo, Porta Susanna, Porta Eburnea e Porta S. Pietro, queste 5 ideali montagnoli che formano il cerchio esterno della torta a mo di ciambella confluiscono in una zona centrale che sta a raffigurare la Piazza Grande, sulla quale svetta la Fontana Maggiore, simbolo della città. Anche i colori che compaiono sul dolce fanno riferimento ai rioni e allo stemma di Perugia. 

sabato 25 gennaio 2014

LA NOTTE DI BARNABA




Il carretto sobbalzava sul sentiero sassoso, nonostante gli incitamenti la mula se la prendeva comoda. Era notte e Barnaba non aveva alcuna voglia di passarla interamente su quello scomodo carretto per colpa di quella bestiaccia. Continuava a tirare nerbate sul dorso della mula, ad incitarla con la voce, ma lei, placidamente teneva la stessa andatura. Barnaba era esasperato, fra non molto sarebbero giunti all’altezza del cimitero ed avrebbe preferito fare quel tratto veloce come un fulmine. Oltrepassarono la curva e sulla collinetta antistante spiccò, illuminato dai raggi di una lugubre luna giallastra, il cimitero. Barnaba si fece il segno della croce e subissò la mula di nerbate. All’inizio, e con suo grande sollievo, la bestia aumentò l’andatura, ma poi, quando fu sotto al cimitero si fermò di colpo. Barnaba imprecò tra i denti. Scese dal carretto ed intese tirare la mula per le briglie, ma questa non ne voleva sapere. Si guardò attorno. Il silenzio era totale, irreale, angosciante e Barnaba ebbe la sgradevole sensazione di non essere solo. Con gli amici dell’osteria, giù al paese, si vantava di essere coraggioso, ed in effetti lo era davvero, lo aveva dimostrato varie volte, ma quando si trattava di morti e di cimiteri nel cuore della notte era tutta un’altra cosa, il suo coraggio svaniva come il fumo con il vento. Nessuno lo avrebbe convinto a restare lì un minuto di più. Stavolta però sembrava che la mula volesse mettere il suo coraggio a dura prova, visto che non aveva alcuna intenzione di muoversi da dove era, anzi si era messa a brucare tranquillamente l’erba sul ciglio della strada.
Barnaba stava sudano freddo, non si era mai sentito così attanagliato dalla disperazione. Alzò la testa e con sguardo timoroso sbirciò verso il camposanto. Quel silenzio assoluto era quasi tangibile, se lo sentiva appiccicato addosso come i vestiti nelle giornate afose e questo gli dava disgusto. Cercò di farsi coraggio, si disse che tutte le storie che si sentivano sui cimiteri e sui morti erano frottole per spaventare i bambini ed i creduloni, che non erano vere, che chi è morto è morto e non può far più nulla. Ma più se lo diceva più quelle storie terribili e raccapriccianti gli tornavano in mente. Davanti ai suoi occhi comparivano immagini orribili e minacciose che affioravano dai ricordi di quei racconti che si era bevuto da piccolo, sentiva che il panico si stava impossessando di lui. Guardò di nuovo la mula, ma questa sembrava stare proprio bene dov’era, allora, guidato da una forza maligna, si voltò nuovamente verso il cimitero e fu allora che lo vide.
Non svenne, nemmeno lui seppe perché, ma le gambe gli diventarono di gelatina ed iniziò a tremare come una foglia al vento. Il rumore dei suoi denti che sbattevano l’uno contro l’altro gli sembrò assordante. Era là, accanto ad una tomba, in piedi, avvolto da un mantello nero che la lieve brezza che si era alzata, faceva muovere con esasperante lentezza. La stessa brezza che portò alle narici di Barnaba un insopportabile odore di morte. Barnaba continuava a tremare, ma non riusciva a staccare gli occhi da quella inquietante figura. Gli tornarono alla mente cento racconti orribili ed una frase lo colpì particolarmente rimanendogli scolpita in mente come su una lapide: “ovunque ci sarà odore di morte li troverai in attesa di un pasto”. Barnaba deglutì, non c’erano dubbi quella figura sinistra doveva essere un “mangiatore di cadaveri” uno dei tanti servitori della Nera Signora. Si ricordò, infatti, che proprio quella mattina era stato sepolto un giovane del villaggio che era affogato nel fiume. All’improvviso la figura si mosse ed avanzò verso di lui con passo lento ma deciso. Le gambe di Barnaba adesso erano come fuse con la terra, impossibile muoverle, come impossibile era muovere ogni altro muscolo del suo corpo. Aveva così tanta paura da non riuscire nemmeno ad aprire e chiudere gli occhi, li teneva spalancati esattamente come un morto e la sua bocca era rimasta aperta come se la mascella si fosse staccata. La figura uscì dal recinto del cimitero e silenziosa come un ombra si avvicinò al carretto. Barnaba ne scorse il volto e fu davvero troppo, lanciò un urlo e svenne.




Quando riaprì gli occhi un volto un po’ cupo ma sinceramente preoccupato, lo stava guardando ed una mano forte gli stava tastando il polso. Si alzò sui gomiti e squadrò la figura china su di lui. Era un uomo, non vi era dubbio, anche se la sua carnagione piuttosto pallida lo faceva sembrare davvero uno spettro, ed il suo sorriso sembrava un ghigno diabolico.
- Il mangiatore di cadaveri!!!! – gridò Barnaba schizzando in piedi.
- Il che?!! – domandò l’uomo sconcertato.
La sua voce era calda e profonda ed in certo modo rassicurò Barnaba che, ancora in preda al panico, aggiunse - … il mantello, la tomba .. il cadavere … - L’uomo sorrise ancora, ma stavolta il suo sorriso fu gentile, quasi di scusa
- Devo averla spaventata a morte e me ne dolgo sinceramente, ma quando l’ho vista ero troppo contento per pensare che la mia presenza a quest’ora in un cimitero potesse apparire alquanto macabra e spaventosa – fece un lieve inchino - .. lasciate che mi presenti, sono il Dottor Curiel, Daniel Curiel e detengo una cattedra all’università di medicina a Parigi, e questo, in un certo senso spiega la mia presenza qui stanotte – Barnaba lo guardò incredulo
- Dottore?!! – ripeté balbettando – Io … Io ho creduto a tutte quelle storie … Mi vergogno .. sono pure svenuto! .. Vi prego non raccontatelo a nessuno ne andrebbe della mia reputazione! –
Il dottore sorrise benevolo
- Facciamo un patto, io non dirò nulla a nessuno della vostra brutta figura se voi mi aiuterete nel lavoro che ero venuto a fare – si fermò – di solito mi aiuta la mia vecchia assistente una donna capace e affidabile, ma in questo viaggio non mi ha potuto accompagnare, quindi ... - lo guardò dritto negli occhi esercitando tutto il suo carisma - .. Che fate allora, ci state? –
Barnaba pensò agli amici dell’osteria, pensò alla sua reputazione in frantumi, a quello che sarebbe diventato se la storia si fosse saputa in giro e decise che accettare di aiutare quello strano individuo, di certo sarebbe stato il male minore.
- Accetto .. – disse con voce decisa - … di che lavoro si tratta? – chiese poi non senza una certa preoccupazione.
- Vedete – disse il dottore guidandolo verso il cancello del cimitero - .. il mio compito è di curare i vivi perché non divengano morti prima del tempo, per far questo nel migliore dei modi ho bisogno di studiare a fondo il corpo umano di fare esperimenti, quello che mi serve è una cavia che non si lamenti quando dovrò aprirla, sezionarla, cucirla … insomma, chi meglio di un cadavere fresco può servire a questo scopo? –
Barnaba rimase allibito, stupefatto e nauseato
- Volete dire che dovremo disseppellire un cadavere e portarlo via?!!! –
- Esatto! – rispose il dottore porgendogli una vanga - .. Lo so cosa state per dirmi .. Che è un sacrilegio, che è contro l’umana decenza e che la notte i morti che ho profanato verranno a tirarmi le lenzuola e che i mie sogni saranno popolati da incubi e rimorsi. Beh! .. In coscienza posso dirvi che non è il primo cadavere che disseppellisco e che di tutto ciò non mi è mai capitato nulla – sorrise mellifluo - … E poi ricordatevi che abbiamo appena stretto un patto -
Barnaba afferrò la vanga che il dottore gli stava porgendo ma non si diede per vinto.
- Mi sento come uno sciacallo, un profanatore di tombe, lo so i miei sogni saranno popolati da incubi spaventosi e … -
Il dottore lo interruppe
- Lo saranno ugualmente se raccontassi in paese del vostro scarso coraggio, sarebbero incubi di diversa natura, ma non vi farebbero dormire ugualmente. Allora vi volete decidere a darci dentro con quella vanga? –
Barnaba cominciò quel disgustoso lavoro. La tomba era quella di Marcel, il giovane affogato, e sepolto quella mattina. Fu un lavoro piuttosto pesante ma alla fine la vanga toccò il legno con un suono sinistro che fece rabbrividire il povero Barnaba. Sulla sua fronte non c’era nemmeno una goccia di sudore, la paura ed il disgusto glielo avevano ghiacciato sul corpo e adesso quel freddo maledetto gli era entrato nelle ossa così come il puzzo nella morte gli era entrato nel naso. Con mosse rapide e sicure, a dimostrazione di una lunga esperienza, il dottore scoperchiò la bara, ed il volto gonfio e tumefatto del giovane Marcel fu crudamente illuminato dalla luce lunare. Per Barnaba fu davvero troppo, s’inginocchiò e dette di stomaco. Il dottore ammirò la sua nuova cavia poi bonariamente disse
- In effetti non è un bello spettacolo .. Ma voi di pelo sullo stomaco non ne avete nemmeno un po’! .. Avanti aiutatemi a tirarlo fuori –
Ma Barnaba era troppo preso con il suo stomaco per dare retta al dottore, stava così male che credette di aver rimesso anche le budella. Solo dopo un po’ di tempo riuscì a riprendere in parte il controllo del proprio corpo e quando si girò la bara era già stata richiusa e poco più in là, un grosso telo bianco, nascondeva il corpo gonfio del giovane.
- Su avanti!! .. ricoprite la fossa – l’apostrofò il dottore in modo sbrigativo.
Pur di non pensare a ciò che aveva appena fatto, Barnaba si mise di buona lena a riempire la fossa ed in breve del loro gesto folle non rimase traccia alcuna. Il dottore era un vero specialista sembrava infatti che nessuno avesse toccato quella tomba, quella considerazione, però, non sollevò Barnaba dai sensi di colpa. Sollevarono il corpo e si avviarono verso il carretto, lo deposero a terra e si guardarono in faccia. Barnaba si sentiva pieno di rabbia e non sapendo come sfogarla non trovò di meglio che prendersela con la mula. La guardò con odio e le sferrò una pedata, la bestia ragliò ma non si mosse più di tanto.
- Perché prendersela con lei, povera bestia – disse il dottore carezzandole il muso - .. Se non fosse stato per lei non vi sareste mai fermato e non mi avreste dato una mano … -
- Appunto!! – lo interruppe asciutto Barnaba - … Avrei preferito cento volte che non si fosse fermata!!! – Il dottore non gli badò e con molta tranquillità mise il cadavere sul carretto e con disinvoltura salì a cassetta. Barnaba lo guardò stralunato, poi divenne furioso
- Ma dove credete di andare con quel disgraziato fardello sul mio carretto?!! .. Scendete immediatamente!!!
Il dottore lo guardò sorridendo
- Suvvia!! .. Avete fatto trenta, potete fare trentuno … Non vorrete mica che me ne torni a casa a piedi con il nostro amico in spalla? – e così dicendo indicò il cadavere avvolto nel telo bianco
- Nostro amico?!! – sbottò Barnaba - … Sarà amico vostro!! .. –
Poi si zittì, non era certo quello il momento di mettersi a battibecco con il dottore. L’unica cosa che voleva veramente era che tutta quella assurda vicenda volgesse al termine il prima possibile.
- .. E va bene .. – disse salendo a cassetta - … vi accompagnerò a casa, dopodiché ognuno per la sua strada. Non ci siamo mai visti, io non so nemmeno che voi esistete. Né voi né i vostri cadaveri… - guardò la mula con disappunto - … C’è solo un problema, questa bestiaccia non ne vorrà sapere di muoversi e … -


Il dottore fece un cenno con la mano come a dire di stare tranquillo, Barnaba si strinse nelle spalle e ridacchiò tra se pensando con quale delle sue medicine quel “ruba-cadaveri” contava di far muovere l’animale. Fece schioccare le redini senza molta convinzione ma con suo grande stupore la mula si mosse ed iniziò a trottare di buona lena; guardò prima l’animale e poi il dottore ma questi fissava con occhio assente il buio della notte. Barnaba si strinse di nuovo nelle spalle, nessuno dei due sembrava volergli dare una spiegazione e lui si rassegnò, contento solo di essersi lasciato alle spalle quel posto così macabro. Il viaggio verso la casa del dottore non fu lungo, ma si svolse nel più assoluto silenzio, solo quando il carretto si fermò davanti al cancelletto di legno della villetta l’uomo parlò
- Vi ringrazio per il vostro prezioso quanto inaspettato aiuto. Posso offrirvi qualcosa da bere? –
Barnaba scosse decisamente la testa e senza dire nulla spronò la mula. Si era già allontanato quando la voce del dottore lo raggiunse
- E’ stato un piacere conoscervi ci rivedremo presto!!! –
Per tutta risposta Barnaba tirò dritto toccando ferro con le dita.
Non fu una buona notte per il povero Barnaba. Non riuscì a chiudere occhio perseguitato dalla faccia gonfia del giovane Marcel e quando riusciva ad a appisolarsi terribili incubi popolavano il suo breve sonno costringendolo a destarsi. Il mattino dopo era un vero straccio. Aveva una faccia pallida e stravolta, due occhiaie nere e profonde da far paura ed una stanchezza che non gli permetteva di reggersi in piedi. Si guardò allo specchio con orrore e decise che la cura migliore fosse quella di bersi un goccetto e fu così che cominciò con un bicchierino arrivando in meno di due ore al fondo di quella che sarebbe stata la prima bottiglia della giornata. In paese nessuno lo vide per tutto il giorno. Barnaba, infatti, completamente ubriaco girava per la campagna continuando a scolarsi bottiglie di vino. Fu così che, completamente brillo, mentre ammirava disgustato l’acqua del fiume, mise un piede in fallo e vi cadde dentro a faccia in giù. Non trascorse nemmeno un minuto che uno dei suoi amici, passando di lì per caso, lo scorse e si precipitò a tirarlo fuori. Fece di tutto per rianimarlo ma Barnaba sembrava non dare più segni di vita. L’amico lo trascinò in paese, dove il vecchio medico diagnosticò la sua morte per annegamento. Fu così che, nel giro di poco più di ventiquattro ore il paese si mise di nuovo in lutto. Qualcuno disse che una maledizione era scesa sul villaggio e molti gli credettero.
Barnaba fece il suo ultimo viaggio verso quella collinetta che la notte prima aveva popolato i suoi incubi, accompagnato dal cordoglio di tutto il paese. Tutti lo conoscevano e gli erano affezionati, aveva sempre aiutato tutti e fatto favori a chiunque glielo chiedesse, e forse ad una persona di troppo. Il suo unico difetto, tutti lo sapevano, era il suo incrollabile orgoglio, che alla fine lo aveva portato alla morte.
Fu tumulato accanto alla tomba di Marcel, la stessa morte li accumunava, era giusto stessero vicino.
Era ormai notte fonda, sul cimitero immerso nel buio e nel silenzio una lieve brezza accarezzava i bossi e le croci senza riuscire a far piegare gli alti ed austeri cipressi. Le lapidi, sotto la luce della luna, sembravano tanti soldati impettiti, un piccolo esercito silenzioso.
Barnaba non era in grado di dire quanto tempo fosse passato da quando era caduto nel fiume, una cosa però era certa, doveva ancora essere ubriaco, perché il suo sogno era uno dei peggiori che avesse mai fatto: sepolto vivo dentro una bara sotto due metri di terra. Sicuramente era anche il più reale che avesse mai fatto perché il legno di quella maledetta cassa era incredibilmente duro e l’odore di terra incredibilmente forte. Decise di svegliarsi. Scosse la testa e si pizzicò una mano, riaprì gli occhi pronto a respirare a pieni polmoni. Non successe. Le pareti della bara non erano svanite e l’aria era poca ed irrespirabile. Non aveva sognato, non stava sognando e soprattutto non era ubriaco. Qualcuno lo aveva davvero sepolto vivo. L’orrore che provò fu indicibile, era come star seduti in salotto con la morte che ti offriva il tè. La consapevolezza che di li a poco sarebbe realmente morto, e di una morte orrenda, lo fece impazzire. Iniziò a gridare ed agitarsi ottenendo solo di consumare più rapidamente la poca aria ancora a disposizione. Il legno scricchiolava sotto i suoi calci e sembrava ridere di lui. Non riusciva a rassegnarsi, non poteva morire così stupidamente, lui era vivo, voleva vivere. Tempestò il coperchio di pugni ma senza ottenere nulla. L’aria era ormai del tutto irrespirabile ed un principio di soffocamento lo prese alla gola. Spalancò la bocca e strabuzzò gli occhi. Di tutte le morti gli era capitata la più orribile. Iniziò a piangere mentre un vago senso di leggerezza lo stava cogliendo come una vertigine, gli sembrava che il suo corpo non pesasse più nulla, che quasi fluttuasse, poi udì un forte scossone, poi un altro, sentì lo scricchiolio del legno che si spezzava e finalmente i suoi occhi dilatati rividero la luna. Schizzò a sedere nella bara come una molla e con la bocca spalancata cercò di respirare tutta l’aria possibile. I polmoni e la gola gli bruciavano e la testa gli girava, ma era fuori, era vivo. Accanto alla bara scoperchiata, seduto per terra ed ancora scioccato, se ne stava il dottor Curiel. Non era certo questo che si era aspettato di trovare aprendo la sua ennesima bara. La sua sorpresa era stata doppia. Primo nello scoprire che il suo nuovo morto non era affatto morto e secondo perchè il supposto cadavere era da lui ben conosciuto. Non gridò, sarebbe stato del tutto normale in fondo, la sorpresa e la paura erano state così grandi da avergli tolto l’uso della parola. Si limitò a rimanere seduto a terra, sapeva che le gambe non lo avrebbero sorretto. Entrambi attesero il tempo necessario per riprendersi poi si scambiarono un’eloquente occhiata.


- Voi?!! … Ma .. Ma com’è possibile? – balbettò il dottore indicando il redivivo.
- Già!! .. – fece eco lui ancora incredulo di essere tornato nel mondo dei vivi – Proprio io!!! –
- … Ma come diavolo? .. – attaccò il dottore ancora con il cuore in gola.
Ma Barnaba scosse la testa. Non lo sapeva e non voleva saperlo, l’unica cosa che adesso gli importava era che tutto fosse finito e che potesse ancora respirare, fosse anche l’aria fetida del cimitero. Uscì barcollando dalla bara e la guardò con ribrezzo e orrore, poi guardò il dottore, che ancora abbastanza frastornato, si stava spolverando il mantello.
- Mi aiuti a rimettere tutto come stava –
disse deciso e rimboccandosi le maniche del suo abito della domenica
- Ma come? – domandò Curiel - .. Non volete far sapere a tutto il paese che siete ancora vivo? –
- No! – rispose Barnaba mentre gettava grandi badilate di terra sul coperchio della bara – .. Me ne andrò da questo stupido villaggio dove il medico non sa distinguere un morto da un vivo .. Mi domando quanti poveri disgraziati avrà fatto seppellire vivi .. – Lo guardò deciso - .. Diventerò il vostro fedele assistente, la vecchia signora avrà bisogno di riposarsi dopo tanti anni di onorato servizio non crede? .. Dividerò con lei fama e ricchezza .. –
Il dottore lo guardò stupito mentre con forza rimetteva la croce di legno al suo posto dandovi sopra vigorose botte con la pala
- Cosa vi fa pensare che vi voglia come mio assistente? –
- Niente – disse Barnaba guardando soddisfatto il suo lavoro - .. Ma suppongo che non vorrete si sappia in giro che il più famoso medico di Parigi deve la sua più che meritata fama al furto sacrilego di cadaveri dai vari cimiteri di provincia –
Curiel lo guardò, poi scoppiò a ridere
- E’ vero – disse - che figura ci farei? –
Si strinsero la mano e si avviarono verso l’uscita del cimitero.
- Dovremo farcela a piedi – disse Barnaba grattandosi la testa
- Non credo – rispose il dottore
Sul sentiero ai piedi del cimitero, proprio davanti al cancello, c’era la mula di Barnaba con il carretto che tranquillamente brucava l’erba sul ciglio della strada.
- E questa? –
Sbottò Barnaba , ricordandosi che la sera prima era stato così sconvolto da non pensare nemmeno a staccare la bestia dal carretto
- Non saprei proprio.. quando sono arrivato non c’era – disse il dottore - .. Comunque il viaggio da qui a Parigi è lungo, credo che ci farà comodo –
Salirono a cassetta ed al primo colpo di redini la vecchia mula iniziò a trotterellare con brio. Barnaba si voltò verso il cimitero che stava scomparendo dietro la curva e le croci illuminate dalla luna piena sembravano salutarlo come amici dopo una goliardata un po’ eccessiva. Barnaba sorrise, avevano ragione a ridere di lui, gli avevano combinato un bello scherzetto. Si rese conto che adesso la sua avversione per i cimiteri ed i morti era scomparsa, forse rimasta sepolta nella bara al posto suo. Ripensò a quello che era successo la sera prima alla strana coincidenza che l’aveva portato a conoscere il dottor Curiel. Ma era stata davvero una strana coincidenza? Lo guardò con la coda dell’occhio, forse quell’uomo era in realtà un demone? In verità non avrebbe saputo dirlo. La storia era piena di menti brillanti tacciate di stregoneria e di pratiche demoniache da persone ignoranti e piene di pregiudizi e chi era lui per dare un giudizio in tal senso? Nessuno. Era certo l’ultima ruota del carro. Da buon contadino credeva solo a ciò che vedeva ed in Curiel lui vedeva solo il suo salvatore. Adesso il lavoro di quell’originale dottore non gli pareva più tanto macabro e sconveniente, se non fosse stato per lui sarebbe morto di certo. Pensò, che grazie agli studi di uomini come Curiel, molta gente non avrebbe più fatto la fine orribile che stava per fare lui grazie all’incompetenza di un vecchio medico ignorante. Il fine giustificava i mezzi? Non lo sapeva, il suo giudizio era certo di parte, ma sentiva che stava per entrare a far parte di una cosa importante, che stava per entrare in una nuova era. L’era della medicina moderna. E lo stava facendo accompagnato da una vecchia mula che forse ne sapeva più di tutti loro messi assieme.
FINE



lunedì 13 gennaio 2014

LO SPECCHIO

  
Mie care fanciulle, voglio raccontarvi una storia alquanto strana, ma molto, molto interessante.
Dovete sapere che nel lontano regno di Morfho viveva la principessa Lara. Essa era bella, certo, ma cattiva, insensibile ed egoista, insomma la sua bellezza si fermava all’esterno, dentro di lei invece non vi era alcuna beltà. Il suo popolo non l’amava e per la buona e gentile Sapiah, la sua governante, questo era un dolore immenso. Perché, vedete, quando si ama si tende sempre a vedere il lato buone delle persone e Sapiah sapeva che nel profondo, molto profondo, anche Lara qualcosa di buono l’aveva.
Un giorno passò, per quel lontano regno, un venditore che volle dare in dono alla principessa un bellissimo specchio. Ovviamente Lara accettò solo perché lo specchio era finemente cesellato e ricco di pietre preziose e non si domandò certo il motivo di quel regalo ritenendo che a lei, in quanto principessa, fosse tutto dovuto. Ecco, la nostra storia inizia dopo che la bella e arida Lara si fu seduta per rimirarsi in quello specchio stupendo. Ciò che vedeva riflesso le piaceva molto, come tutti gli egoisti amava solo sé stessa, ed affascinata dalla propria bellezza allungò una mano per carezzare quella immagine a lei tanto cara. Fu allora che sotto lo sguardo attonito e sconvolto di Sapiah e della servitù tutta, la principessa Lara fu risucchiata dallo specchio
scomparendovi dentro.
Questa storia, mie care, è il racconto di ciò che Lara trovò al di là dello specchio, non abbiate paura, ma stringetevi forte l’una all’altra…..



Il ticchettio furioso della pioggia sul vetro accompagna un lampo che squarcia il cielo plumbeo, ed illumina un volto spaventato che si riflette in uno specchio. Il tuono scuote l’aria e fa vibrare il vetro, anche l’immagine trema, ma non è per colpa del tuono. Una mano pallida si posa sullo specchio come a cercare di nascondere quel volto. Aral non vuole vedere, ma non può farne a meno. Com’è successo? Perché adesso è in quel luogo? Stringe il pugno come a cercare di afferrare l’immagine riflessa, ma sfugge e sembra prendersi beffe di lei. Con rabbia scaraventa una bottiglietta di profumo contro lo specchio ma lui non s’infrange, mentre la preziosa boccetta finisce in mille pezzi.
La fanciulla si strappa i capelli furiosa e si volta dando le spalle allo specchio, ma la sua immagine rimane lì a fissarla.
- Voglio andarmene!!!!!!! – urla disperata - … Questo non è il mio mondo!!!! –
Un rumore lieve, un fruscio di stoffe pesanti accompagnato da un odore di fiori morti. Una donna dai lunghissimi capelli argentati la fissa.
- Quale sarebbe il tuo mondo Aral? … Sei certa di saperlo? –
La fanciulla la guarda con rancore
- Io non capisco … Perché sono qui? … Cosa volete da me? –
Si volta infastidita dall’immagine che dallo specchio sembra fissarla con scherno e la indica con mano tremante
- Io sono lei !!!!! – urla
La donna si avvicina ma sembra più fluttuare che camminare
- Certo … - mormora - … E lei sei tu … -
- Ti ripeto che questo non è il mio mondo … Rivoglio il mio mondo !!!!! –
La donna si avvicina allo specchio e sulla lucida superficie il suo volto si sostituisce a quello di Aral. Allunga una mano e questa volta la superficie diventa come liquida inghiottendo quelle lunghe dite affusolate
- E’ questo che vuoi vero? –
La principessa sgrana gli occhi portandosi le mani al petto
- Non andartene Haipas!!!! … Insegnami la tua magia!!!! –
- La magia non è altro che coscienza e conoscenza … - sospira - … E umiltà di sapersi sempre e comunque soggetti a leggi superiori … -
Ritira la mano e lo specchio torna solido e vuoto, nessuna immagine viene riflessa dalla sua lucida superficie.
- Sei nel regno di Ohfrom … E ci resterai fino a quando non avrai compiuto il tuo percorso … Solo allora lo specchio si aprirà … -
Aral stringe gli occhi, sente le lacrime bucarli ma resiste, non vuole piangere.
- Tu non sei così crudele - mormora – Perché tu sei diversa? Ed io .. Io .. –
Il volto della donna si oscura di ombre cupe che deturpano la sua crudele bellezza
- Cosa pensi che gli altri vedano in te? – risponde con voce cattiva - … Cosa credi che nasconda la superficie dello specchio? –
Aral afferra tutto ciò che trova e lo distrugge scagliandolo per la stanza
- Io voglio!!!!!! – urla imperiosa
Ma la donna di nome Haipas la colpisce al volto con uno schiaffo così forte da gettarla a terra. I suoi capelli si muovono come tentacoli, le si avvicina minacciosa
- Lei vuole!!! – sibila facendo scaturire una risata agghiacciante dalle sue labbra violacee e lucide - … Tu non vuoi capire!!! .. – continua stringendo il pugno dalle lunghe unghie dello stesso colore delle labbra - … Cosa dai tu in cambio?!! .. –
Aral striscia sul pavimento spaventata
- Io voglio…. – balbetta con voce flebile
Un tuono ancora più forte scuote l’intera stanza e Haipas la guarda con occhi fiammeggianti
- …Non sei tu la vittima cara la mia Aral, rifletti..Rifletti attentamente mentri ti guardi nello specchio… -
Di nuovo quel fruscio e quell’odore di fiori morti. Aral, adesso, è sola nella grande stanza.
Si alza toccandosi la guancia colpita, le duole, molto. Si avvicina di nuovo allo specchio e la sua immagine è ancora lì, beffarda. Presa dallo sconforto e dalla rabbia finalmente piange e si getta sul letto tempestando il cuscino di pugni. Da quanto tempo è in quel luogo? Ore, giorni, mesi? Non sa dirlo. Sa solo che non ha mai smesso di piovere e che l’unica persona che vede è Haipas con il suo volto conosciuto ma la sua indole mutata. Non c’è il sole, non ci sono suoni se non quello del temporale che sembra non voler mai cessare. Ma nel suo mondo il sole c’era? Certo, ed era anche bello, forse, se solo lei si fosse mai fermata a guardarlo. C’erano il vento, il profumo dei fiori ed il cielo azzurro … Le sembra, almeno, ma allora non le servivano, adesso invece … E c’era la gente, tanta gente, una marea di volti. Volti allegri? Forse, ma non in sua presenza, infondo a lei cosa importava della compagnia degli altri? Però, adesso, un volto amico … Cosa avrebbe dato per vederlo.
Rifletti, le aveva detto Haipas. Rifletti!! ..Come quel maledetto specchio!!!



Si alza e si siede di fronte alla sua immagine riflessa. Cosa aveva dato lei in cambio? Questa era la domanda di Haipas. In cambio di cosa? Del sole? Del cielo? Del vento? Dei fiori? Dei volti sorridenti? Cosa aveva dato Lara in cambio del miracolo della vita? Perché era Lara a fissarla da quella lucida superficie. Cosa aveva dato lei per ogni volta che aveva gridato “Voglio”? Nulla … Lei non aveva mai dato nulla. E cosa avrebbe mai potuto dare una principessa? Le principesse chiedono, pretendono, ordinano. Nel suo mondo, nel regno di Morfho, lei aveva sempre spadroneggiato, aveva sempre preteso e non le era mai importato del cielo, del sole, del profumo dei fiori e della gente china al suo passaggio. Lei era al di sopra di tutto e di tutti. Le parole di Haipas le risuonano nelle orecchie come il rombo del tuono. “La magia è coscienza e conoscenza.. La magia è umiltà”. All’improvviso le pare che nulla di ciò che aveva nel suo mondo le sia mai appartenuto veramente. Che valore può avere una gemma preziosa in confronto ad un sorriso sincero ed amichevole? Nella desolazione di quella stanza grigia si rende conto che baratterebbe tutti i suoi gioielli per una presenza amica, per un raggio di sole. La sua Sapiah, sempre pronta, sempre gentile e premurosa, l’aveva mai apprezzata al pari di un monile di sublime fattura? Adesso, in quel regno cupo dal nome oscuro ha come unica compagnia Haipas, lo stesso volto ma non lo stesso cuore. Era tutto al rovescio come se fosse stato riflesso in uno specchio. Tutto, tranne lei. Allunga di nuovo la mano ma la superficie rimane dura e fredda. Anche qui porta una corona, ma le gemme sono opache e l’oro non luccica. Sia nel regno di Morfho che in quello di Ohfrom lei è una principessa ed in entrambi i regni il suo cuore è arido e la sua superbia enorme. Come mai lei, al di là dello specchio non cambiava? Se, come sembrava, il regno di Ohfrom era l’altra faccia dello specchio, lei avrebbe dovuto essere buona, dolce, altruista e generosa; perché Lara era sempre Lara anche nel suo riflesso? Solo il nome cambiava, ma non il cuore. Guarda fuori, il cielo è grigio e la pioggia incessante. Ecco! E’ questo ciò che lei ha sempre dato in cambio della bellezza della vita: tristezza, cattiveria, aridità, superbia. Ha solo sparso sale perché nulla di buono crescesse. Aral urla, urla tutta la sua disperazione perché ha finalmente capito di non aver mai vissuto. Cosa pensava che gli altri vedessero in lei? Regalità? Bellezza? Ricchezza? No! … Gli altri non vedevano niente perché non c’era niente da vedere. Non c’è niente al di là della superficie dello specchio solo il vuoto creato dal suo cuore freddo e meschino. Un dolore acuto la trafigge. Allora è questo che si prova ad avere un cuore? Si domanda guardandosi allo specchio, e finalmente capisce che se vuole tornare nel suo mondo Aral deve rimanere lì in quella stanza triste con la sua cattiveria ed il suo disprezzo per la vita degli altri e per il mondo intero. Lara è al di là dello specchio che l’aspetta, è tanto che l’attende, da una vita, ma solo adesso lo vede chiaramente.
Nel gelo di quella stanza sente dentro qualcosa di caldo che sboccia è il desiderio, vero e sincero, di cambiare, di essere diversa, di essere migliore. Un lampo squarcia il cielo e lei allunga la mano incerta e tremante. Questa volta la superficie si muove, è come liquida, la sente fredda e viva allo stesso tempo, ma non si ritrae. Con coraggio e speranza affonda la mano e vede scomparire il suo braccio fino al gomito. E’ un attimo, sente come se qualcosa le si strappasse dentro, come se qualcosa la dividesse in due. Lara va e Aral resta. Chiude gli occhi e trattiene il respiro. Un vortice la risucchia nel buio e poi violento la restituisce alla vita. Lara apre gli occhi e vede attorno a sé volti spaventati, preoccupati e poi vede Sapiah, la sua Sapiah che piange e mai visione le è parsa più bella. Sente la propria voce diversa, come una melodia, è la sua voce ma è come se la sentisse per la prima volta, e finalmente vede. Vede lo stesso specchio, ma fuori c’è il sole, l’aria dolce e profumata di fiori entra dalle finestre aperte e sente il canto degli usignoli. E’ a Morfho, nella sua bella stanza. Si alza e di slancio si getta tra le braccia di Sapiah e l’abbraccia piangendo e le promette che non sarà mai più come era prima, le promette che Aral rimarrà per sempre al di là dello specchio. Tutti sorridono ed applaudono e le si stringono attorno con un calore che Lara non conosceva ma che sente già di amare. Si volta verso lo specchio e vede i capelli tentacolari di Haipas che trattengono Aral che vuole uscire, ma è un attimo. l’immagine svanisce e sulla superficie lucida adesso si riflette il volto sorridente di Lara che viene abbracciata dalla sua dolce Sapiah.
Quanto infida e traditrice può essere la superficie di uno specchio, ingannevole nella sua generosa bugia, per quegli occhi che non sanno guardare oltre.





FINE



lunedì 6 gennaio 2014

SULL'ALTRA SPONDA



La pioggia bagna i vetri, scivola lentamente come lacrime sulle guance. Il cielo scuro non accenna ad aprirsi e non c’è niente all’orizzonte che prometta qualcosa di buono, proprio come nel nostro futuro, se vivere questa vita può voler dire avere un futuro. Siamo tutti molto tristi e ci guardiamo in faccia l’un l’altro con la speranza di qualcosa di diverso nello sguardo del vicino, ma sono tutti uguali i nostri sguardi, sono vuoti e profondi come pozzi neri avvolti nella nebbia. Piove ancora. Betta è la più angosciata, guarda fuori dalla finestra ma so che non può vedere niente, anche se a vederla così sembra che possa vedere tutto ed anche di più. Forse ascolta il ticchettio della pioggia, forse sta ascoltando una storia che solo lei può sentire, una storia tutta sua, solo per lei. Una storia, già ci avevo pensato. Mi guardo attorno e quelle facce spente di tutti i giorni mi sembrano più grigie, ma al contempo più vive, come se questa giornata così triste potesse renderle più luminose, più intelligenti. Non me la sento oggi di raccontare loro le solite storie, non sono certo le accetterebbero, sono convinto riderebbero di me ed allora il pazzo sarei io, con le mie storie assurde di gente che non esiste, che non può esistere e mai esisterà. Guardo fuori e la pioggia disegna sul vetro un volto. Mi sento venir meno, mi sento sciogliere ed ad un tratto mi sento nudo davanti a quegli sguardi così profondi, così angosciati. Con la mano faccio un gesto come per cancellare quel volto, ma è tardi, ormai lo hanno visto anche loro e per prima Betta, che lenta come il tempo si gira verso di me e mi fissa vacua ed interrogativa. Il volto è ancora lì e non accenna a svanire, me li sento addosso, sento le loro mute domande martellarmi il cervello o forse è la mia coscienza che bussa alla porta dell’anima. Deglutisco e sento il sangue fermarsi nelle vene. C’è un abisso dentro di me ed ovunque guardi c’è il buio e nemmeno uno spicchio di luce. E’ il labirinto.
Anche questa volta ci sono finito e non riesco ad uscirne. Corro, corro, ma non serve a niente, sbatto contro muri umidi e viscidi e scivolo sempre più in basso e non posso aggrapparmi a niente. Vorrei piangere, ma sono come una fonte arida, la gola mi fa male e gli occhi asciutti sono ruvidi come carta vetrata, la testa mi scoppia. E’ tutto inutile sento quelle domande scavarmi l’anima, non hanno pietà della mia follia, e nemmeno della loro. Sono esigenti, egoiste, non ammettono bugie, non danno requie, se vorrò salvarmi dovrò rispondere. Piove e quel volto è ancora lì, domanda cose che sa già ma che vuole sentire ancora per poter sopravvivere più a lungo, fino al prossimo crollo della mia mente malata. Ansante, sudato, stravolto, con la bocca spalancata avida di aria, assalito dall’odore di rancido e di muffa che mi entra nei polmoni come se fosse una linfa vitale, respiro scomposto, irregolare fino a che non sento che i tratti del mio volto si stanno rilassando. Sto tornando alla normalità. Non avrei mai voluto raccontare questa storia, fino ad oggi ci ero riuscito, perché quel volto mi era sempre apparso quando ero solo e lo avevo sconfitto, ma questa volta aveva voluto la rivincita e mi aveva assalito in presenza degli altri, e loro erano un pubblico esigente che non ammetteva dinieghi. Dal vetro sentivo quegli occhi trapassarmi, erano occhi belli e mostruosi allo stesso tempo. Scossi la testa lentamente, era la resa. Li vidi accomodarsi attorno a me come scolari diligenti ed il volto si mosse come ad approvare la mia decisione, i lunghi capelli che lo incorniciavano scattarono repentinamente e spaccando il vetro, come tentacoli minacciosi, mi vennero incontro bloccandosi all’improvviso sopra la mia testa, pronti a ghermirmi ad ogni più piccolo errore o tentativo d’imbroglio. Eppure una volta erano stati così belli, morbidi, dolci. Fu tanto tempo fa, o forse è successo ieri, non ricordo, qui il tempo non esiste. Lei era così bella. Aveva lunghi capelli neri e immensi occhi azzurri. Ogni giorno passava per il sentiero del vecchio mulino con la cesta dei panni sotto il braccio. C’era un ruscello e lei andava a fare il bucato. Non so quando si accorse che tutte le volte mi nascondevo dall’altra parte del ruscello e stavo a spiarla mentre lavava. Lei cantava ed era stupenda. Le note le uscivano da quella stupenda gola bianca e sembravano rimbalzare sulla superficie dell’acqua per finirmi sulla faccia confondendomi e facendomi affluire il sangue alle tempie con inaudita violenza. Non so fino a che punto lei sapesse l’effetto che mi faceva vederla con l’acqua fino al polpaccio e le sottane tirate sui fianchi per non bagnarle troppo. Il mio auditorio non era molto vasto, ma in compenso era molto esigente. Vidi i loro occhi accendersi, erano un po’ meno neri ed un po’ meno profondi, ma i capelli sopra la mia testa erano molto minacciosi, non volevano che smettessi di raccontare, nemmeno il tempo di riprendere fiato di tirare le fila, di capire, di non affogare nelle mie parole e soprattutto nei mie pensieri. Dovevo continuare senza smettere, come la pioggia fuori dalla finestra che impietosa continuava a flagellare i nostri animi oppressi. La pioggia. L’ho sempre odiata. Se pioveva lei non andava al ruscello ed io non potevo vederla. Quando pioveva facevo lavorare la mia mente e me la creavo, ma non era la stessa cosa. Diventavo stizzoso, irascibile, intollerante. 

Non potevo stare troppo senza vederla, senza sentirla. La sognavo sempre. Sognavo che m’invitava dall’altra parte del ruscello per aiutarla a lavare i panni, io glieli porgevo e lei mi sorrideva radiosa, ma quando mi svegliavo avevo in bocca un sapore amaro come dopo aver vomitato e stavo peggio di prima. Così, anche quando pioveva andavo al ruscello, mi nascondevo e aspettavo, aspettavo fino a quando l’angoscia non mi faceva correre via urlando con voce stridula la mia rabbia. Il sole poi tornava ed io tornavo a rinascere. Goloso la guardavo come un pasticcino proibito e lei non si sottraeva ai mie sguardi, fino a che un giorno mi resi conto che lei si metteva in mostra, si era accorta di me, dei miei sguardi nascosti. Mi senti assurdamente pieno di speranza, ero come folle mi sembrava che da un momento all’altro i miei sogni si sarebbero avverati. Ogni giorno sempre di più. Vedevo i suoi occhi sempre più spesso scivolare verso la mia parte del ruscello, nell’apparente distratta ricerca di qualcosa, vedevo il suo petto gonfiarsi più maliziosamente e sentivo la sua voce farsi sempre più melodiosa. Quei capelli così lunghi e lucenti, mossi dalla lieve brezza, sembravano chiamarmi sull’altra sponda, non erano duri e minacciosi come adesso, non sembravano serpenti velenosi, ma promettevano morbide carezze. Non so quanto tempo riuscì a resistere, so solo che un giorno mi avviai verso il ruscello con la precisa intenzione di attraversarlo ed andare da lei. Quel giorno lei non venne. Fu come una fucilata in pieno petto. Gridai, ne sono certo, e mi strappai i capelli e gli abiti per la rabbia. Mi sbucciai i ginocchi a forza di sbatterli a terra e corsi via per il viottolo pazzo di rabbia, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Poi quella voce, la sua voce, mi bloccò dov’ero. Giungeva da lontano, forse portata dal vento, o forse era vicina e stava sussurrando. Mi guardai attorno attonito, poi lentamente mi avvicinai all’alta macchia di cespugli sulla destra del viottolo. A fatica, graffiandomi, giunsi al centro della macchia e la vidi. Era nel prato, al di là dei cespugli. Aveva attraversato il ruscello, era venuta lei dalla mia parte. Volevo chiamarla, dirle che ero li, ma all’improvviso da dietro un albero spuntò un giovane dai capelli biondi e ricciuti che ridendo le corse incontro, lei rise emettendo un gridolino e fuggì. Lui era bellissimo, sembrava un angelo e lei una dea capricciosa. I lunghi capelli neri si perdevano nel cielo terso, i suoi occhi brillavano come diamanti e la sua voce sembrava una cascata limpida e fresca. Rideva ed ogni volta che il giovane sembrava sul punto di acchiapparla emetteva gridolini acuti di finta paura. Non durarono molto, lui finì per afferrarla per una manica ed insieme caddero a terra e rotolando sparirono fra gli alti fili d’erba ed i papaveri che come rubini ornavano quell’immenso prato. La sentì ridere forte poi ogni rumore cessò ed io rimasi appeso a quell’ultima nota come un condannato che aspetti la sentenza della corte. Mi sembrò un’eternità poi si tirò su mettendosi seduta. Sorrideva radiosa con le guance arrossate. Si pettinò alla meglio i capelli e con mani lievemente tremanti si abbottonò la camicetta. Il giovane le fu al fianco e con l’insistenza di un ragazzino viziato continuava a sbottonarle i bottoni che lei aveva appena abbottonato. Rideva, la prese per le spalle e la tirò di nuovo giù. Fu troppo per me. Disperato e distrutto fuggì in direzione del ruscello. Volevo morire. Avrei posto fine al mio strazio. Mi sarei immerso lentamente nell’acqua fresca e poi in un attimo sarei stato più leggero, mi sarei liberato del mio corpo e puro spirito sarei stato uguale a tutti gli altri. Questa idea mi fece sentire meglio. Correvo; avevo passato la mia vita a correre dietro a sogni, speranze, promesse ed ancora non sapevo che avrei passato il resto della mia esistenza a correre e fuggire dai mie incubi dalla mia follia. Arrivai al ruscello ansante e trafelato. L’acqua era limpida, cristallina, era invitante, sembrava una bella donna, poi all’improvviso gli occhi di lei apparvero nell’acqua e si spansero fino a tingere tutto il ruscello di azzurro. Mi sentì debole, le gambe mi tremavano, caddi di schianto sull’erba umida e mi persi nei suoi capelli neri. Mi vidi al posto del giovane biondo. Le correvo dietro, lei rideva poi si girava e mi vedeva e sul suo bel volto l’orrore prendeva il posto della felicità. Gridava, gridava scappando e furono le sue urla martellanti a svegliarmi. Si era fatto buio, mi alzai tutto indolenzito. Ero svenuto, avevo avuto un incubo. Guardai l’acqua sperando di vederci ancora i suoi occhi, ma adesso era nera e minacciosa. Spaventato fuggì promettendo a me stesso che l’indomani sarei tornato per compiere il mio ultimo gesto, dovevo farlo di giorno, dovevo farlo illudendomi di affogare nei suoi occhi. Quella sera fu l’unica volta in cui mi sentì sereno e tranquillo. Mi sentivo un eroe ed ero certo che se lei mi avesse visto mi avrebbe amato. Non ricordo di essermi più sentito così bene come allora, nemmeno adesso che lentamente il buio del mio labirinto si sta sgretolando, adesso che mi sto liberando di un peso che mi tirava sul fondo più lugubre del mio abisso. Quella sera fu l’unica volta in cui posso dire di aver vissuto veramente, me ne rendo conto solo adesso, dopo di allora ho solo tentato di sopravvivere e non ci sono riuscito molto bene. Il benefico influsso di quella mia decisione mi fece sentire bene anche la mattina del giorno dopo. Mi sentivo vivo e normale e riuscì a mantenere quello stato di grazia fino a che non giunsi al ruscello. Non avevo rimpianti, non avevo paura. La mia incrollabile determinazione, però, s’infranse come un cristallo all’udire il suono melodioso della sua voce. Agitato e confuso raggiunsi il mio posto di osservazione. Lei era lì, con l’acqua ai polpacci e la gonna tirata sui fianchi che cantava lavando i panni. Era lì che gonfiava il petto e sbirciava di sottecchi verso la mia direzione. Mi sembrava che cantasse solo per me. In un attimo tutti i miei eroici proponimenti si dissolsero, mi persi a contemplarla e lentamente nacque in me un altro proponimento. Decisi che avrei attraversato il ruscello e che sarei andato da lei e con lei avrei lavato i panni cantando. Nel momento in cui formulavo questo pensiero mi trovai già con l’acqua alle cosce. Come in un sogno guadai il ruscello. Ero più a valle di lei, nascosto da alcuni fitti cespugli che si protendevano sull’acqua arrivai sull’altra sponda senza essere visto. Trovarmi sull’altra riva del ruscello mi fece una strana impressione, non l’ho più provata una sensazione come quella. Era il gusto della trasgressione, la forza della ribellione. Io sull’altra sponda? Era una sfida contro la logica degli uomini. Mi ritrovai a ridere senza capirne bene il motivo. Quel gesto mi aveva dato alla testa, mi sentivo ebbro, un eroe, avrei voluto che tutti potessero vedermi. Mi guardai attorno come se fossi approdato su di un altro pianeta, tutto mi sembrava diverso, più bello. Il colore dell’erba, dei fiori, del cielo erano più vividi e brillanti l’aria era più fina e più profumata. Euforico mi avvicinai verso il punto in cui lei stava lavando i panni. Il suono della sua voce mi guidò, ne avevo bisogno perché questa parte del ruscello non la conoscevo e mi sarei perso sicuramente senza la guida della sua canzone. Mi accovacciai dietro un masso, lei era ad una ventina di passi da me. Mi sentivo al settimo cielo. Lentamente, con l’audacia di un ubriaco, uscì dal mio nascondiglio e vi avvicinai. Aprì la bocca, che non smetteva di sorridere, volevo chiamarla, ma dalla mia gola uscì solo un orrendo suono inarticolato. Mi resi conto della differenza della mia voce dalla sua con orrore crescente. Lei si voltò. Sul suo volto il sorriso scomparve lasciando posto all’orrore, esattamente come nel mio sogno. Ad ogni passo che facevo i suoi occhi si sgranavano, iniziò ad arretrare lasciando cadere i panni che la corrente del ruscello trascinò via. Tesi le braccia e sorrisi tentando nuovamente di parlare. Anche questa volta riuscì solo a mugolare pietosamente e la mia bocca storta si aprì in un ghigno animalesco. Mai come allora avevo sentito la mia gobba pesarmi in quel modo, mi trascinava a terra facendomi procedere come un ubriaco senza equilibrio. La vidi sbiancare e la sua voce melodiosa si trasformò in un grido acuto ed affilato come una lama che mi trapassò il cuore scuotendo tutto il mio misero corpo. Cadde a sedere e freneticamente tentò di rialzarsi per fuggire, ma il fango della riva ed i sassi vischiosi le impedivano di farlo. Mi fermai a pochi passi da lei, tesi le mani contorte, ma lei si coprì il volto gridando. Gridava, gridava e parlava, con gesti concitati delle mani cercava di allontanarmi come si fa con i brutti sogni. Le sue parole mi ferivano il cuore, lo sentivo sanguinare. La guardai attentamente e non mi parve più così bella. La sua voce adesso era stridula e gracchiante, i suoi occhi, una volta così belli, adesso erano rotondi, arrossati e privi di magia. Tutto quello che sentivo era una rabbia crescente, un’angoscia profonda. Abbozzai un mezzo passo ma lei afferrato un sasso me lo scagliò addosso prendendomi alla tempia. Il dolore fu fortissimo, una scossa violenta che agì perversamente sulla mia mente sconvolta e malata. Urlai ed il mio grido la terrorizzò tanto che svenne. La sua reazione mi lasciò spiazzato. Non sapevo cosa fare. Adesso era di nuovo bella, le avrei donato il mio cuore. Volevo prendermi cura di lei, mi avvicinai e mi accoccolai al suo fianco. Con mano tremante le sfiorai la fronte, ma mi ritrassi subito. Un povero essere come me aveva sfiorato una dea, mi sembrava incredibile. Mi feci più ardito e le carezzai una guancia, sembrava di toccare il velluto, le dita, come animate da una volontà propria, scesero lungo quel collo stupendo e si fermarono su quella gola così morbida che creava quei suoni così meravigliosi. Ero felice, piangevo di felicità. Era bella la vita sull’altra sponda del ruscello. Potevo toccarla, toccare la mia gioia ed il mio tormento. La mia mano era ferma sulla gola, la sentivo pulsare, calda inebriante. Era viva e bella, al contrario di me, ma in quel momento mi sentivo vivo e bello anche io. Povera patetica creatura che voleva vivere una vita che non era la sua, come mi facevo pena, ma la pena è un lusso che gli altri non ci concedono, solo reclusione, repulsione, odio per la nostra diversità. Prigioni, solo prigioni nel mio futuro, ma in quel momento ero libero ed avevo realizzato i miei sogni. Lei si svegliò e nel vedere il mio volto deforme così vicino al suo urlò. Prigioni, pensavo alle prigioni in quel momento, non avrebbe dovuto urlare, quel suono scatenò la mia rabbia il mio rancore il mio odio sopito. Odiai la sua bellezza, la sua vita, la sua libertà. Sentì la sua repulsione come un alito pestilenziale sulla faccia. Strinsi il pugno con rabbia. Il suo grido si strozzò all’improvviso. Continuai a stringere e l’urlo si trasformò in rantolo, più stringevo più il rumore si affievoliva e le mie orecchie ed il mio cuore trovavano pace. Tornai a guardarla ed i suoi occhi spalancati mi trafissero l’anima con la loro fissità spenta. Non erano più belli, erano orrendi esprimevano tutto quello che aveva provato nel vedermi, mi ci specchiai ed ebbi paura della mia immagine. Allentai la presa, sul suo bel collo bianco spiccavano orrende le tracce rossastre delle mie dita. La bocca era spalancata in una smorfia affatto bella, sembrava la mia bocca contorta, era come me, repellente come me. Afferrai il corpo senza vita, era leggero, quasi inconsistente, lo immersi nell’acqua certo che nel giro di pochi minuti si sarebbe svegliata. Il tempo passava ma lei non si muoveva da sotto la superficie cristallina del ruscello, con i contorni del volto distorti dall’acqua mi fissava con quella faccia mostruosa contornata dai capelli che galleggiavano e sembravano tentacoli di una medusa. La paura per la mostruosità che avevo fatto mi aggredì all’improvviso, lasciai andare il corpo che lentamente fu portato via dalla corrente. Mi guardai attorno, quella sponda non era più tanto bella, era infida, insicura, cattiva. Mi gettai in acqua e non senza sforzo riuscì a raggiungere l’altra riva, la nostra sponda. Solo quando fui all’asciutto mi sentì sicuro, ma il rimorso e l’orrore per ciò che avevo fatto mi straziarono l’anima. Mi accoccolai e cominciai a piangere con singhiozzi disarticolati che sembravano quasi dei latrati. Fu li che mi trovarono, molto più tardi, quando ormai il sole era calato da tempo. 
Adesso non è più così buio, il mio labirinto è pieno di spicchi di luce ed i minacciosi capelli si sono lentamente ritirati, adesso ondeggiano dolcemente come quando stavano nell’acqua. Il volto si sta lentamente cancellando, anche la pioggia è cessata. Anche questa volta ho vinto io la battaglia, fino a quando non tornerà per vendicarsi di nuovo sarò libero dal mio incubo, non sarò più recluso nel buio di quel terribile labirinto e potrò trascinare il mio corpo deforme per i lunghi corridoi della nostra casa, sempre che gli infermieri mi facciano uscire da questa cella. Ho promesso che non attraverserò mai più il ruscello ho capito, ormai, quale fetta di modo mi appartiene, o meglio a quale fetta di mondo appartengo. 
Ho vinto, voglio uscire, queste pareti imbottite senza nemmeno una finestra mi opprimono. La crisi è passata, l’ho scacciata, fatemi uscire, sono rimasto solo, tutti se ne sono andati, anche Betta. Non voglio rimanere qui dentro da solo, adesso che ho raccontato la mia storia posso uscire. Mi guardo attorno e vedo la piccola finestrella sulla porta e due occhi che mi fissano. Sorrido. Adesso sto bene, fatemi uscire. La serratura scatta, due infermieri entrano, mi puliscono la bava che mi cola dalla bocca e mi slacciano questa assurda camicia che m’impedisce di muovere le braccia. Li guardo gentilmente e loro mi conducono fuori. Parlano tra loro e mi guardano preoccupati. Questa volta devo averli spaventati più del solito, questa volta è stato più difficile vincere, forse ho urlato più delle altre volte. Li guardo cercando di fargli capire che possono stare tranquilli, che adesso va tutto bene. Povere creature, sempre preoccupate per tutto. Tocca a me rassicurarle sulla mia salute. La bava continua a calarmi dalla bocca, ma passerà, sono ancora un po’ debole, ho solo bisogno di un po’ di riposo. Mi adagiano sul mio letto, mi rimboccano le coperte, sono gentili, lo sono sempre. Chiudo gli occhi e sento Betta e tutti gli altri accanto a me, li vedo, mi sorridono ed applaudono. Lo so è stata una bella storia, ma è troppo triste e raccontarla spesso mi fa troppo male, ed io non voglio tornare nella stanza dalle pareti imbottite, è troppo brutto. Fuori c’è il sole, fa caldo. I due infermieri uscendo parlano, dicono che è una settimana che non piove e che un po’ di pioggia farebbe bene alle piante. Sorrido tra me. Poveri pazzi, non si sono nemmeno accorti della pioggia che è venuta giù fino a pochi attimi prima. E’ proprio vero, da una sponda all’altra c’è un abisso e se devo essere sincero chi vive dall’altra parte mi fa un po’ pena, così legato alle cose futili e passeggere, legato alle apparenze ai sentimenti facili agli inganni. Noi che viviamo sull’altra sponda possiamo contare su sentimenti sinceri, stabili, sicuri. Non ci sono inganni, non ci sono apparenze, c’è solo una compagna sicura e fedele che non ti schernisce mai, solo a volte gioca un po’, ma ci vuole per rompere la monotonia. Povere creature non sanno che amica fedele e sincera sia la follia, ci guardano senza capire cosa perdono stando sull’altra sponda.
FINE