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lunedì 6 gennaio 2014

SULL'ALTRA SPONDA



La pioggia bagna i vetri, scivola lentamente come lacrime sulle guance. Il cielo scuro non accenna ad aprirsi e non c’è niente all’orizzonte che prometta qualcosa di buono, proprio come nel nostro futuro, se vivere questa vita può voler dire avere un futuro. Siamo tutti molto tristi e ci guardiamo in faccia l’un l’altro con la speranza di qualcosa di diverso nello sguardo del vicino, ma sono tutti uguali i nostri sguardi, sono vuoti e profondi come pozzi neri avvolti nella nebbia. Piove ancora. Betta è la più angosciata, guarda fuori dalla finestra ma so che non può vedere niente, anche se a vederla così sembra che possa vedere tutto ed anche di più. Forse ascolta il ticchettio della pioggia, forse sta ascoltando una storia che solo lei può sentire, una storia tutta sua, solo per lei. Una storia, già ci avevo pensato. Mi guardo attorno e quelle facce spente di tutti i giorni mi sembrano più grigie, ma al contempo più vive, come se questa giornata così triste potesse renderle più luminose, più intelligenti. Non me la sento oggi di raccontare loro le solite storie, non sono certo le accetterebbero, sono convinto riderebbero di me ed allora il pazzo sarei io, con le mie storie assurde di gente che non esiste, che non può esistere e mai esisterà. Guardo fuori e la pioggia disegna sul vetro un volto. Mi sento venir meno, mi sento sciogliere ed ad un tratto mi sento nudo davanti a quegli sguardi così profondi, così angosciati. Con la mano faccio un gesto come per cancellare quel volto, ma è tardi, ormai lo hanno visto anche loro e per prima Betta, che lenta come il tempo si gira verso di me e mi fissa vacua ed interrogativa. Il volto è ancora lì e non accenna a svanire, me li sento addosso, sento le loro mute domande martellarmi il cervello o forse è la mia coscienza che bussa alla porta dell’anima. Deglutisco e sento il sangue fermarsi nelle vene. C’è un abisso dentro di me ed ovunque guardi c’è il buio e nemmeno uno spicchio di luce. E’ il labirinto.
Anche questa volta ci sono finito e non riesco ad uscirne. Corro, corro, ma non serve a niente, sbatto contro muri umidi e viscidi e scivolo sempre più in basso e non posso aggrapparmi a niente. Vorrei piangere, ma sono come una fonte arida, la gola mi fa male e gli occhi asciutti sono ruvidi come carta vetrata, la testa mi scoppia. E’ tutto inutile sento quelle domande scavarmi l’anima, non hanno pietà della mia follia, e nemmeno della loro. Sono esigenti, egoiste, non ammettono bugie, non danno requie, se vorrò salvarmi dovrò rispondere. Piove e quel volto è ancora lì, domanda cose che sa già ma che vuole sentire ancora per poter sopravvivere più a lungo, fino al prossimo crollo della mia mente malata. Ansante, sudato, stravolto, con la bocca spalancata avida di aria, assalito dall’odore di rancido e di muffa che mi entra nei polmoni come se fosse una linfa vitale, respiro scomposto, irregolare fino a che non sento che i tratti del mio volto si stanno rilassando. Sto tornando alla normalità. Non avrei mai voluto raccontare questa storia, fino ad oggi ci ero riuscito, perché quel volto mi era sempre apparso quando ero solo e lo avevo sconfitto, ma questa volta aveva voluto la rivincita e mi aveva assalito in presenza degli altri, e loro erano un pubblico esigente che non ammetteva dinieghi. Dal vetro sentivo quegli occhi trapassarmi, erano occhi belli e mostruosi allo stesso tempo. Scossi la testa lentamente, era la resa. Li vidi accomodarsi attorno a me come scolari diligenti ed il volto si mosse come ad approvare la mia decisione, i lunghi capelli che lo incorniciavano scattarono repentinamente e spaccando il vetro, come tentacoli minacciosi, mi vennero incontro bloccandosi all’improvviso sopra la mia testa, pronti a ghermirmi ad ogni più piccolo errore o tentativo d’imbroglio. Eppure una volta erano stati così belli, morbidi, dolci. Fu tanto tempo fa, o forse è successo ieri, non ricordo, qui il tempo non esiste. Lei era così bella. Aveva lunghi capelli neri e immensi occhi azzurri. Ogni giorno passava per il sentiero del vecchio mulino con la cesta dei panni sotto il braccio. C’era un ruscello e lei andava a fare il bucato. Non so quando si accorse che tutte le volte mi nascondevo dall’altra parte del ruscello e stavo a spiarla mentre lavava. Lei cantava ed era stupenda. Le note le uscivano da quella stupenda gola bianca e sembravano rimbalzare sulla superficie dell’acqua per finirmi sulla faccia confondendomi e facendomi affluire il sangue alle tempie con inaudita violenza. Non so fino a che punto lei sapesse l’effetto che mi faceva vederla con l’acqua fino al polpaccio e le sottane tirate sui fianchi per non bagnarle troppo. Il mio auditorio non era molto vasto, ma in compenso era molto esigente. Vidi i loro occhi accendersi, erano un po’ meno neri ed un po’ meno profondi, ma i capelli sopra la mia testa erano molto minacciosi, non volevano che smettessi di raccontare, nemmeno il tempo di riprendere fiato di tirare le fila, di capire, di non affogare nelle mie parole e soprattutto nei mie pensieri. Dovevo continuare senza smettere, come la pioggia fuori dalla finestra che impietosa continuava a flagellare i nostri animi oppressi. La pioggia. L’ho sempre odiata. Se pioveva lei non andava al ruscello ed io non potevo vederla. Quando pioveva facevo lavorare la mia mente e me la creavo, ma non era la stessa cosa. Diventavo stizzoso, irascibile, intollerante. 

Non potevo stare troppo senza vederla, senza sentirla. La sognavo sempre. Sognavo che m’invitava dall’altra parte del ruscello per aiutarla a lavare i panni, io glieli porgevo e lei mi sorrideva radiosa, ma quando mi svegliavo avevo in bocca un sapore amaro come dopo aver vomitato e stavo peggio di prima. Così, anche quando pioveva andavo al ruscello, mi nascondevo e aspettavo, aspettavo fino a quando l’angoscia non mi faceva correre via urlando con voce stridula la mia rabbia. Il sole poi tornava ed io tornavo a rinascere. Goloso la guardavo come un pasticcino proibito e lei non si sottraeva ai mie sguardi, fino a che un giorno mi resi conto che lei si metteva in mostra, si era accorta di me, dei miei sguardi nascosti. Mi senti assurdamente pieno di speranza, ero come folle mi sembrava che da un momento all’altro i miei sogni si sarebbero avverati. Ogni giorno sempre di più. Vedevo i suoi occhi sempre più spesso scivolare verso la mia parte del ruscello, nell’apparente distratta ricerca di qualcosa, vedevo il suo petto gonfiarsi più maliziosamente e sentivo la sua voce farsi sempre più melodiosa. Quei capelli così lunghi e lucenti, mossi dalla lieve brezza, sembravano chiamarmi sull’altra sponda, non erano duri e minacciosi come adesso, non sembravano serpenti velenosi, ma promettevano morbide carezze. Non so quanto tempo riuscì a resistere, so solo che un giorno mi avviai verso il ruscello con la precisa intenzione di attraversarlo ed andare da lei. Quel giorno lei non venne. Fu come una fucilata in pieno petto. Gridai, ne sono certo, e mi strappai i capelli e gli abiti per la rabbia. Mi sbucciai i ginocchi a forza di sbatterli a terra e corsi via per il viottolo pazzo di rabbia, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Poi quella voce, la sua voce, mi bloccò dov’ero. Giungeva da lontano, forse portata dal vento, o forse era vicina e stava sussurrando. Mi guardai attorno attonito, poi lentamente mi avvicinai all’alta macchia di cespugli sulla destra del viottolo. A fatica, graffiandomi, giunsi al centro della macchia e la vidi. Era nel prato, al di là dei cespugli. Aveva attraversato il ruscello, era venuta lei dalla mia parte. Volevo chiamarla, dirle che ero li, ma all’improvviso da dietro un albero spuntò un giovane dai capelli biondi e ricciuti che ridendo le corse incontro, lei rise emettendo un gridolino e fuggì. Lui era bellissimo, sembrava un angelo e lei una dea capricciosa. I lunghi capelli neri si perdevano nel cielo terso, i suoi occhi brillavano come diamanti e la sua voce sembrava una cascata limpida e fresca. Rideva ed ogni volta che il giovane sembrava sul punto di acchiapparla emetteva gridolini acuti di finta paura. Non durarono molto, lui finì per afferrarla per una manica ed insieme caddero a terra e rotolando sparirono fra gli alti fili d’erba ed i papaveri che come rubini ornavano quell’immenso prato. La sentì ridere forte poi ogni rumore cessò ed io rimasi appeso a quell’ultima nota come un condannato che aspetti la sentenza della corte. Mi sembrò un’eternità poi si tirò su mettendosi seduta. Sorrideva radiosa con le guance arrossate. Si pettinò alla meglio i capelli e con mani lievemente tremanti si abbottonò la camicetta. Il giovane le fu al fianco e con l’insistenza di un ragazzino viziato continuava a sbottonarle i bottoni che lei aveva appena abbottonato. Rideva, la prese per le spalle e la tirò di nuovo giù. Fu troppo per me. Disperato e distrutto fuggì in direzione del ruscello. Volevo morire. Avrei posto fine al mio strazio. Mi sarei immerso lentamente nell’acqua fresca e poi in un attimo sarei stato più leggero, mi sarei liberato del mio corpo e puro spirito sarei stato uguale a tutti gli altri. Questa idea mi fece sentire meglio. Correvo; avevo passato la mia vita a correre dietro a sogni, speranze, promesse ed ancora non sapevo che avrei passato il resto della mia esistenza a correre e fuggire dai mie incubi dalla mia follia. Arrivai al ruscello ansante e trafelato. L’acqua era limpida, cristallina, era invitante, sembrava una bella donna, poi all’improvviso gli occhi di lei apparvero nell’acqua e si spansero fino a tingere tutto il ruscello di azzurro. Mi sentì debole, le gambe mi tremavano, caddi di schianto sull’erba umida e mi persi nei suoi capelli neri. Mi vidi al posto del giovane biondo. Le correvo dietro, lei rideva poi si girava e mi vedeva e sul suo bel volto l’orrore prendeva il posto della felicità. Gridava, gridava scappando e furono le sue urla martellanti a svegliarmi. Si era fatto buio, mi alzai tutto indolenzito. Ero svenuto, avevo avuto un incubo. Guardai l’acqua sperando di vederci ancora i suoi occhi, ma adesso era nera e minacciosa. Spaventato fuggì promettendo a me stesso che l’indomani sarei tornato per compiere il mio ultimo gesto, dovevo farlo di giorno, dovevo farlo illudendomi di affogare nei suoi occhi. Quella sera fu l’unica volta in cui mi sentì sereno e tranquillo. Mi sentivo un eroe ed ero certo che se lei mi avesse visto mi avrebbe amato. Non ricordo di essermi più sentito così bene come allora, nemmeno adesso che lentamente il buio del mio labirinto si sta sgretolando, adesso che mi sto liberando di un peso che mi tirava sul fondo più lugubre del mio abisso. Quella sera fu l’unica volta in cui posso dire di aver vissuto veramente, me ne rendo conto solo adesso, dopo di allora ho solo tentato di sopravvivere e non ci sono riuscito molto bene. Il benefico influsso di quella mia decisione mi fece sentire bene anche la mattina del giorno dopo. Mi sentivo vivo e normale e riuscì a mantenere quello stato di grazia fino a che non giunsi al ruscello. Non avevo rimpianti, non avevo paura. La mia incrollabile determinazione, però, s’infranse come un cristallo all’udire il suono melodioso della sua voce. Agitato e confuso raggiunsi il mio posto di osservazione. Lei era lì, con l’acqua ai polpacci e la gonna tirata sui fianchi che cantava lavando i panni. Era lì che gonfiava il petto e sbirciava di sottecchi verso la mia direzione. Mi sembrava che cantasse solo per me. In un attimo tutti i miei eroici proponimenti si dissolsero, mi persi a contemplarla e lentamente nacque in me un altro proponimento. Decisi che avrei attraversato il ruscello e che sarei andato da lei e con lei avrei lavato i panni cantando. Nel momento in cui formulavo questo pensiero mi trovai già con l’acqua alle cosce. Come in un sogno guadai il ruscello. Ero più a valle di lei, nascosto da alcuni fitti cespugli che si protendevano sull’acqua arrivai sull’altra sponda senza essere visto. Trovarmi sull’altra riva del ruscello mi fece una strana impressione, non l’ho più provata una sensazione come quella. Era il gusto della trasgressione, la forza della ribellione. Io sull’altra sponda? Era una sfida contro la logica degli uomini. Mi ritrovai a ridere senza capirne bene il motivo. Quel gesto mi aveva dato alla testa, mi sentivo ebbro, un eroe, avrei voluto che tutti potessero vedermi. Mi guardai attorno come se fossi approdato su di un altro pianeta, tutto mi sembrava diverso, più bello. Il colore dell’erba, dei fiori, del cielo erano più vividi e brillanti l’aria era più fina e più profumata. Euforico mi avvicinai verso il punto in cui lei stava lavando i panni. Il suono della sua voce mi guidò, ne avevo bisogno perché questa parte del ruscello non la conoscevo e mi sarei perso sicuramente senza la guida della sua canzone. Mi accovacciai dietro un masso, lei era ad una ventina di passi da me. Mi sentivo al settimo cielo. Lentamente, con l’audacia di un ubriaco, uscì dal mio nascondiglio e vi avvicinai. Aprì la bocca, che non smetteva di sorridere, volevo chiamarla, ma dalla mia gola uscì solo un orrendo suono inarticolato. Mi resi conto della differenza della mia voce dalla sua con orrore crescente. Lei si voltò. Sul suo volto il sorriso scomparve lasciando posto all’orrore, esattamente come nel mio sogno. Ad ogni passo che facevo i suoi occhi si sgranavano, iniziò ad arretrare lasciando cadere i panni che la corrente del ruscello trascinò via. Tesi le braccia e sorrisi tentando nuovamente di parlare. Anche questa volta riuscì solo a mugolare pietosamente e la mia bocca storta si aprì in un ghigno animalesco. Mai come allora avevo sentito la mia gobba pesarmi in quel modo, mi trascinava a terra facendomi procedere come un ubriaco senza equilibrio. La vidi sbiancare e la sua voce melodiosa si trasformò in un grido acuto ed affilato come una lama che mi trapassò il cuore scuotendo tutto il mio misero corpo. Cadde a sedere e freneticamente tentò di rialzarsi per fuggire, ma il fango della riva ed i sassi vischiosi le impedivano di farlo. Mi fermai a pochi passi da lei, tesi le mani contorte, ma lei si coprì il volto gridando. Gridava, gridava e parlava, con gesti concitati delle mani cercava di allontanarmi come si fa con i brutti sogni. Le sue parole mi ferivano il cuore, lo sentivo sanguinare. La guardai attentamente e non mi parve più così bella. La sua voce adesso era stridula e gracchiante, i suoi occhi, una volta così belli, adesso erano rotondi, arrossati e privi di magia. Tutto quello che sentivo era una rabbia crescente, un’angoscia profonda. Abbozzai un mezzo passo ma lei afferrato un sasso me lo scagliò addosso prendendomi alla tempia. Il dolore fu fortissimo, una scossa violenta che agì perversamente sulla mia mente sconvolta e malata. Urlai ed il mio grido la terrorizzò tanto che svenne. La sua reazione mi lasciò spiazzato. Non sapevo cosa fare. Adesso era di nuovo bella, le avrei donato il mio cuore. Volevo prendermi cura di lei, mi avvicinai e mi accoccolai al suo fianco. Con mano tremante le sfiorai la fronte, ma mi ritrassi subito. Un povero essere come me aveva sfiorato una dea, mi sembrava incredibile. Mi feci più ardito e le carezzai una guancia, sembrava di toccare il velluto, le dita, come animate da una volontà propria, scesero lungo quel collo stupendo e si fermarono su quella gola così morbida che creava quei suoni così meravigliosi. Ero felice, piangevo di felicità. Era bella la vita sull’altra sponda del ruscello. Potevo toccarla, toccare la mia gioia ed il mio tormento. La mia mano era ferma sulla gola, la sentivo pulsare, calda inebriante. Era viva e bella, al contrario di me, ma in quel momento mi sentivo vivo e bello anche io. Povera patetica creatura che voleva vivere una vita che non era la sua, come mi facevo pena, ma la pena è un lusso che gli altri non ci concedono, solo reclusione, repulsione, odio per la nostra diversità. Prigioni, solo prigioni nel mio futuro, ma in quel momento ero libero ed avevo realizzato i miei sogni. Lei si svegliò e nel vedere il mio volto deforme così vicino al suo urlò. Prigioni, pensavo alle prigioni in quel momento, non avrebbe dovuto urlare, quel suono scatenò la mia rabbia il mio rancore il mio odio sopito. Odiai la sua bellezza, la sua vita, la sua libertà. Sentì la sua repulsione come un alito pestilenziale sulla faccia. Strinsi il pugno con rabbia. Il suo grido si strozzò all’improvviso. Continuai a stringere e l’urlo si trasformò in rantolo, più stringevo più il rumore si affievoliva e le mie orecchie ed il mio cuore trovavano pace. Tornai a guardarla ed i suoi occhi spalancati mi trafissero l’anima con la loro fissità spenta. Non erano più belli, erano orrendi esprimevano tutto quello che aveva provato nel vedermi, mi ci specchiai ed ebbi paura della mia immagine. Allentai la presa, sul suo bel collo bianco spiccavano orrende le tracce rossastre delle mie dita. La bocca era spalancata in una smorfia affatto bella, sembrava la mia bocca contorta, era come me, repellente come me. Afferrai il corpo senza vita, era leggero, quasi inconsistente, lo immersi nell’acqua certo che nel giro di pochi minuti si sarebbe svegliata. Il tempo passava ma lei non si muoveva da sotto la superficie cristallina del ruscello, con i contorni del volto distorti dall’acqua mi fissava con quella faccia mostruosa contornata dai capelli che galleggiavano e sembravano tentacoli di una medusa. La paura per la mostruosità che avevo fatto mi aggredì all’improvviso, lasciai andare il corpo che lentamente fu portato via dalla corrente. Mi guardai attorno, quella sponda non era più tanto bella, era infida, insicura, cattiva. Mi gettai in acqua e non senza sforzo riuscì a raggiungere l’altra riva, la nostra sponda. Solo quando fui all’asciutto mi sentì sicuro, ma il rimorso e l’orrore per ciò che avevo fatto mi straziarono l’anima. Mi accoccolai e cominciai a piangere con singhiozzi disarticolati che sembravano quasi dei latrati. Fu li che mi trovarono, molto più tardi, quando ormai il sole era calato da tempo. 
Adesso non è più così buio, il mio labirinto è pieno di spicchi di luce ed i minacciosi capelli si sono lentamente ritirati, adesso ondeggiano dolcemente come quando stavano nell’acqua. Il volto si sta lentamente cancellando, anche la pioggia è cessata. Anche questa volta ho vinto io la battaglia, fino a quando non tornerà per vendicarsi di nuovo sarò libero dal mio incubo, non sarò più recluso nel buio di quel terribile labirinto e potrò trascinare il mio corpo deforme per i lunghi corridoi della nostra casa, sempre che gli infermieri mi facciano uscire da questa cella. Ho promesso che non attraverserò mai più il ruscello ho capito, ormai, quale fetta di modo mi appartiene, o meglio a quale fetta di mondo appartengo. 
Ho vinto, voglio uscire, queste pareti imbottite senza nemmeno una finestra mi opprimono. La crisi è passata, l’ho scacciata, fatemi uscire, sono rimasto solo, tutti se ne sono andati, anche Betta. Non voglio rimanere qui dentro da solo, adesso che ho raccontato la mia storia posso uscire. Mi guardo attorno e vedo la piccola finestrella sulla porta e due occhi che mi fissano. Sorrido. Adesso sto bene, fatemi uscire. La serratura scatta, due infermieri entrano, mi puliscono la bava che mi cola dalla bocca e mi slacciano questa assurda camicia che m’impedisce di muovere le braccia. Li guardo gentilmente e loro mi conducono fuori. Parlano tra loro e mi guardano preoccupati. Questa volta devo averli spaventati più del solito, questa volta è stato più difficile vincere, forse ho urlato più delle altre volte. Li guardo cercando di fargli capire che possono stare tranquilli, che adesso va tutto bene. Povere creature, sempre preoccupate per tutto. Tocca a me rassicurarle sulla mia salute. La bava continua a calarmi dalla bocca, ma passerà, sono ancora un po’ debole, ho solo bisogno di un po’ di riposo. Mi adagiano sul mio letto, mi rimboccano le coperte, sono gentili, lo sono sempre. Chiudo gli occhi e sento Betta e tutti gli altri accanto a me, li vedo, mi sorridono ed applaudono. Lo so è stata una bella storia, ma è troppo triste e raccontarla spesso mi fa troppo male, ed io non voglio tornare nella stanza dalle pareti imbottite, è troppo brutto. Fuori c’è il sole, fa caldo. I due infermieri uscendo parlano, dicono che è una settimana che non piove e che un po’ di pioggia farebbe bene alle piante. Sorrido tra me. Poveri pazzi, non si sono nemmeno accorti della pioggia che è venuta giù fino a pochi attimi prima. E’ proprio vero, da una sponda all’altra c’è un abisso e se devo essere sincero chi vive dall’altra parte mi fa un po’ pena, così legato alle cose futili e passeggere, legato alle apparenze ai sentimenti facili agli inganni. Noi che viviamo sull’altra sponda possiamo contare su sentimenti sinceri, stabili, sicuri. Non ci sono inganni, non ci sono apparenze, c’è solo una compagna sicura e fedele che non ti schernisce mai, solo a volte gioca un po’, ma ci vuole per rompere la monotonia. Povere creature non sanno che amica fedele e sincera sia la follia, ci guardano senza capire cosa perdono stando sull’altra sponda.
FINE


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